Cantando nella luce

Per carità, è tutto molto bello: la musica potente, calda – un misto di gregoriano, Beethoven e Metallica – culla le orecchie e arriva dritta al cuore.
Anche le luci e i colori sono meravigliosi: sono convinto che mi ricorderebbero un cielo tropicale, se mai l’avessi visto.

Però l’assenza del corpo mi pesa.
Mi mancano le carezze di mia moglie, le sue mani tra i capelli.
Mi manca la gioia del peso caldo di mio figlio accoccolato in braccio, e l’incanto dell’abbraccio di mia madre.
Sento la mancanza della sabbia ruvida sotto i piedi nudi, dello schiaffo fresco delle onde che diventa carezza nella risacca.
Ricordo il piacere della brezza calda che avvolge il corpo, del vento freddo e teso che fa socchiudere gli occhi e accapponare la pelle.
Ad essere sincero soffro un po’, esultando di tutta questa luce senza avvertirne il calore.
Darei un occhio – ad avercelo – per poter risentire il gelo della nebbia che impregna i vestiti, l’afa soffocante e il sudore sulla fronte. Se solo potessi, correrei nudo incontro ai temporali e  me ne starei lì, in piedi sotto il diluvio, ridendo per ogni singola goccia che mi infradicia. Toccherei ogni cosa: accarezzerei l’erba bagnata e i tronchi ruvidi, stringerei tra le mani le pietre riscaldate dal sole e i ciottoli umidi dei torrenti. E regalerei carezze a tutti: ai mendicanti sporchi abbandonati sui cartoni, ai bambini del parco.
Non sono il solo a soffrire per questa mancanza: dicono che ci vuole pazienza, che ci verrà dato un corpo nuovo di zecca.
Quando? chiedo. Alla fine dei tempi, rispondono.
E intanto aspetto, avvolto dalla musica e immerso nella luce, godendo di questa beatitudine assolutamente impalpabile.

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